Nel giro di un paio di generazioni, i genitori hanno aumentato notevolmente la quantità di tempo, attenzione e denaro che dedicano alla crescita dei figli.
Claire Cain Miller, studiosa americana, descrive l’intensive parenting come “uno stile genitoriale centrato sul bambino, guidato da esperti, emotivamente assorbente, ad alta intensità di lavoro e finanziariamente costoso”. Negli Usa la genitorialità intensiva sarebbe la norma per i genitori della classe medio-alta fin dagli anni Novanta, ma è poi pian piano diventata il miglior modo di crescere i figli a detta di tutte le classi sociali, a prescindere dalle risorse per attuarla.
Per contro, “il sostegno ai genitori che lavorano (come il congedo parentale retribuito, l’assistenza all’infanzia sovvenzionata o gli orari flessibili) è aumentato poco e le reti di vicinato informali di genitori casalinghi sono diminuite perché un numero maggiore di madri lavora”. Il risultato, denunciava già sette anni fa Cain Miller, è che “i genitori, in particolare le madri, provano stress, stanchezza e senso di colpa per le esigenze di una genitorialità di questo tipo, soprattutto se si ha un lavoro. Alcuni mettono in pausa la loro carriera o scelgono di non avere figli”.
E in Italia?
“L’intensive parenting consiste nell’intensificare il compito genitoriale a tal punto da vederlo come deterministico rispetto allo sviluppo e all’educazione dei figli”, spiega Davide Cino, ricercatore di pedagogia generale e sociale all’Università degli studi di Milano-Bicocca. “I genitori sono visti come i principali artefici di tutto ciò che può andare bene o male nella vita dei figli, e questo implica una professionalizzazione del compito genitoriale stesso”.
La genitorialità intensiva, per quanto nasca in contesti anglosassoni come quello statunitense o britannico con dei modelli culturali più individualisti, si è radicata ormai anche in Paesi come l’Italia o altri Stati Mediterranei con una tradizione più collettivista. “Negli ultimi anni, anche in Italia si è assistito a una privatizzazione della cura dei figli e della loro educazione: il compito ricade sempre di più sui genitori, che vivono quindi tutta una serie di pressioni”.
La visione di molti genitori di oggi “mette al centro il bambino e i suoi bisogni, con gli adulti che gravitano intorno, rispondendo in maniera focalizzata e unita a quello che il bambino vuole o desidera”.
L’intensive parenting non è l’unica tendenza in atto per quanto riguarda la genitorialità in cambiamento. Ce ne sono molte altre e anche di segno diverso: dall’abbandono delle punizioni fisiche a una comunicazione più attenta e aperta tra genitori e figli, fino alla maggiore presenza dei padri. L’intensive parenting, inoltre, è un cambiamento che“presenta diversi gradienti: l’esperienza di genitorialità intensiva non è egualmente intensiva per tutti i genitori”.
Il punto che ci interessa è capire se questo modo di fare i genitori ha delle conseguenze sulle scelte riproduttive e quindi su fertilità e natalità. In altre parole: una genitorialità troppo intensa scoraggia l’arrivo di un secondo o un terzo figlio nelle coppie che ne hanno già uno? Oppure, addirittura, questa prospettiva dissuade dal diventare genitori quelle che ci stanno pensando?
La risposta sembra essere sì a entrambi i quesiti.
Genitorialità intensiva, natalità bassa?
“Non è solo un problema di difficoltà economica, è anche una ricaduta del modello di genitorialità, soprattutto di maternità, che impone una presenza e una dedizione che semplicemente molte donne non possono permettersi”. I carichi di cura nel nostro Paese continuano a essere sbilanciati e quindi l’aumento di ore da dedicare alla genitorialità finisce per ricadere ancora una volta principalmente sulle donne.
“Per le madri che lavorano allevare un figlio diventa così un faticoso slalom fra orari, impegni, appuntamenti, scadenze. I padri italiani, infatti, danno ancora scarso contributo alle incombenze della casa e dei figli”.
Per il ricercatore Cino, “anche aderire solo in minima parte alla genitorialità intensiva è un investimento molto oneroso dal punto di vista economico, ma anche temporale ed emotivo. Chi me lo fa fare di fare un altro figlio? É una situazione che non invoglia”. Anche la psicologa Ionio è su una posizione simile: “Avere un figlio è costoso da tanti punti di vista: economico, organizzativo, gestionale, psicologico. Essendoci un investimento così grande sul bambino, sembra impossibile poterne gestire più di uno”.
Vita ha titolato la sua edizione mensile “Perché non vogliamo figli”. Nell’articolo di apertura venivano citate le cause della bassissima natalità italiana: l’incertezza economica dei giovani, la mancanza di servizi, la child penality per le madri e l’inadeguatezza delle politiche. “Ma – proseguiva la riflessione – questo, diciamocelo, non basta a spiegare l’oggi. C’è anche un elemento culturale, con una narrazione della genitorialità tutta schiacciata tra le infinite rinunce che un figlio comporta e l’idillio patinato e performante dei social network a cui fanno da contraltare i tanti che dicono che, tornassero indietro, un figlio non lo farebbero più”. Alla lista andrebbe aggiunta anche la genitorialità intensiva, che infatti veniva brevemente trattata dal contributo di uno dei tanti esperti sentiti all’interno del magazine.
Alla fine, quando si parla di denatalità, il problema sembra essere anche “come facciamo questo lavoro dei genitori”.
Da SECONDO WELFARE (Newsletter 9/2025)