Silvia Nanni, teatrante

Stamani ho visto passare tante persone, si preparavano per un corteo, gridavano cose che non ricordo. Erano così diversi tra loro, sai? Che uno pensa che a manifestare per qualcosa ci vadano persone tutte uguali, e invece ho visto uomini, donne, bambini, vecchi, vestiti colorati, vestiti di bianco, silenziosi, rumorosi, buffi, seri!

Ma erano belli Sonia, davvero, avresti dovuto vederli! Tutti insieme che camminavano e sorridevano, e io davvero non capisco come facciano ad essere così cattivi! […] Ah, ecco cosa gridavano stamani quelli del corteo, mi sono ricordato! Che siamo tutti uguali! E di smettere di sfruttare il sud del mondo. Già. Ma, di preciso, dov’è che è il sud del mondo, Sonia? Ah, il Polo Sud? Ho capito. Ma che c’è da sfruttare al Polo Sud, Sonia? Dici le foche e i pinguini? Ah, certo. E che ci facciamo con le foche e i pinguini, Sonia? Ah dici per i circhi e per gli zoo? Ho capito. Comunque ha ragione mio papà: se questi vengono fino a Genova, con questo caldo incredibile, a lanciare sacchi di sangue infetto per difendere le foche e i pinguini, pazzi devono esserlo davvero. Comunque io sono proprio un belin. A vederli così, dalla finestra, a me sembrano tutti simpatici, e belli. Tanto belli.

Questo è un estratto da “La nebbia di sempre – Genova, 20 anni dopo”, atto unico che ho scritto 3 anni fa in memoria dei fatti di cronaca avvenuti durante il G8 del 2001. Protagonista è Paolo, 25 anni all’anagrafe, ma con un deficit cognitivo che lo fa parlare come un bambino. È la grandezza del teatro: uscire dal proprio “io” e vestire i panni di ciò che è altro da sé, per vedere con occhi diversi vicende, storie, personaggi. Oggi la fatica di farlo è quasi insostenibile: paradossalmente, in una società così varia e variopinta, i panni degli altri sono sempre più pesanti e scomodi da indossare. Così, finisce che, a poco a poco, ce li mettiamo addosso sempre meno. E ad ogni giorno che passa, l’altro si allontana da noi un passo di più. Ripartiamo dal teatro, dall’ascolto, dalla condivisione in compresenza, ripartiamo dalla nostra sete di storie – “siamo una specie che racconta, che si racconta”, scrive Roland Barthes – per spogliarci della nostra rassicurante quotidianità, della nostra statica routine, ed immergersi, mescolarsi nelle vite altrui. Che questa grande “biodiversità umana”, è troppo spesso ammantata da un velo che spaventa: ma una volta sollevato, sotto, si trova sempre qualcosa di meraviglioso.

Silvia Nanni, teatrante

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