Nell’era dominata dalla Techne, oggi in grado non solo di ”riparare” ogni presunta ”difettosità” dei viventi, ma anche di sostituirsi ad essi, l’umanità sembra chiamata a una prova paradossale: trasformare fallibilità e limitatezza, apparente punto debole rispetto a macchine e algoritmi, in un decisivo punto di forza. Se è vero che lo sviluppo tecnologico tende, per sua natura, alla standardizzazione dei processi e dei ruoli, plasmando per osmosi comportamenti sociali e culture, sfuggire al suo dominio omologante e distopico (così potentemente rappresentato dal suo prodotto più estremo, l’Intelligenza Artificiale) può infatti significare una cosa sola: salvaguardare e valorizzare tutto ciò che sfugge alla logica dei chatbot proprio perché ”difettoso” – piccolo, delimitato, locale, rispetto a ciò che è globale e massificato, ”arretrato” o ”laterale” rispetto a ciò che è ”avanti”, eccetera -, e che è per l’appunto il frutto, sempre originale, irripetibile e imprevedibile, della creatività umana nella sfida per la sopravvivenza. Si chiama anche biodiversità, la cui tutela, d’ora in poi, nessuna politica che voglia ancora definirsi tale potrà fare a meno di mettere in agenda.
Maria Cristina Carratù, giornalista