(Il genocidio) è un attentato alla diversità umana in quanto tale, cioè a una caratteristica della condizione umana senza la quale la stessa parola umanità si svuoterebbe di ogni significato” (H. Arendt, La banalità del male). Quando Stefano mi ha offerto la possibilità di scrivere qualche riga sul tema della “biodiversità umana come ricchezza” ho cercato per diverse settimane di trovare il bandolo di una matassa di pensieri che permettesse al lettore di seguire un filo perlomeno logico. Poi sono incappato in questa frase di Hannah Arendt che mi è parsa una parola definitiva sul tema proposto. Poco da aggiungere se non qualche chiosa. Innanzitutto iniziare la riflessione partendo dalla negazione dell’altro uomo: il genocidio. Con questa mossa viene meno semplicemente l’umanità in quanto privata di una sua caratteristica essenziale: la diversità. Lo spazio per la “ricchezza” e la vita (bio) semplicemente non c’è più! Se passiamo dall’astratto al concreto e al quotidiano sembra però che la realtà contraddica la chiarezza del ragionamento di sopra. La diversità è spesso fastidiosa, ci si presenta come ostacolo, talvolta compito da assolvere a meno che non sia inserita in una varietà di scelte piacevoli: dai gusti del gelato alle destinazioni di viaggio per non parlare di un menu o semplicemente di un supermercato. Su questo versante siamo aperti. Torniamo a guardare dall’altra parte: camminando per strada nel quartiere, prendendo mezzi pubblici, stando in fila presso un ufficio. In queste occasioni spesso emerge la nostra ostilità alla diversità e troviamo un sacco di ragioni per giustificarla pur dicendoci, più o meno chiaramente, che questo fastidio è circostanziato, legato all’occasione, in fondo noi non siamo ostili all’estraneo … non siamo xenofobi. Siamo brava gente. Non so fino a quando e in quanti questi “freni inibitori d’emergenza” agiscano, una cosa però forse da questo discorso risulta chiara: che in ogni situazione, dall’incontro con l’altro – qualsiasi altro in qualsiasi situazione – emerge qualcosa di simile ad un compito, un piccolo impegno a metterci in gioco in una relazione nella quale possiamo avere idea di come entriamo, ma non del tutto di come usciremo. Questo è il giro di valzer quotidiano della vita con cui noi possiamo lasciare traccia per noi e per altri intessendo la trama della società in cui viviamo. Più passi riusciamo a fare con l’altro, più la trama si estende e diventa ospitale. Meno ne facciamo, più apparentemente siamo sicuri della nostra posizione rifiutando l’altro, ma al tempo stesso più ci avviciniamo al baratro nominato da Hannah Arendt nella frase con cui ho aperto questa riflessione.
Andrea Bovo, docente