SPDC, reparto Psichiatrico Diagnosi e Cura.
Cosa accade lì dentro? cosa c’è nell’immaginario collettivo associato a quel luogo…
Mi fa piacere dare uno spaccato, che serva a vedere aspetti forse non facilmente immaginabili se non da chi ci sia passato…
L’SPDC e’ un luogo dove il tempo sembra fermarsi in un eterno presente che sembra non passare mai.. dove accadono cose, dove arrivano persone.
Arrivano persone e tu sei lì che le aspetti, le raccogli in pronto soccorso e le porti su al primo piano. Alcune persone le accompagni, hanno paura a salire, si fermano ad ogni passo titubanti lungo il corridoio.. dai, coraggio, andrà bene!.
Arrivano persone di tutti i tipi, di tutte le classi sociali, di tutti i partiti politici, di tutte le fedi religiose, di nazionalità diverse: l’imprenditore in fallimento, la casalinga sola, l’uomo separato di mezza età, l’immigrato arrivato dalla Libia, la madre che ha perso un figlio, l’anziana a cui è stato messo il marito in casa di riposo, persone normali la cui esistenza ad un a certo punto si è frammentata, persone verso cui la vita ha impattato così forte da romperle in pezzi e i ragazzi, tanti giovanissimi uomini e donne, 18, 19, 20 22 anni, arrivano dalle migliori scuole fiorentine, figli di ingegneri, avvocati, medici, ragazzi in cui si è perso il senso dell’esistenza.
Arrivano impauriti, a volte stremati, altre stupiti di ciò che sta accadendo loro, alcuni si ribellano, vorrebbero fuggire da una reatà che gli dice: ‘non stai bene, dai, ormai ti ho visto, mi sono accorta di te, non continuare a fare finta di niente, fermati, aspetta, prendi uno spazio di tempo, non correre più, rifugiati qui’. A seconda delle circostanze.
Allora rimangono. Si riposano, dormono. Passando nel corridoio vedi i loro volti addormentati finalmente rilassati.
E poi iniziano a raccontare.
All’inizio è il sintomo che parla, è un modo di comunicare qualcosa che non può essere comunicato diversamente, oppure è un sentirsi non espresso a parole ma rappresentato con un comportamento (prendere pasticche, tagliarsi i polsi).
E tutti i giorni ci si alza, si fa colazione, e poi si va al colloquio a raccontare cosa ci è successo, la mattina.
Così piano piano a parlare non sono più i sintomi, sono le persone e il racconto si fa coerente. Racconti i più diversi: prima in genere dei giorni precedenti al ricovero e poi il racconto di una vita intera, con tutte le sue vicissitudini, le perdite, i fallimenti, le ingiustizie, racconti pregni di vita reale.
Così, a forza di raccontare, il sintomo scompare, si attenua, lo si comprende, acquista un significato. Si torna a sperare, ritorna la voglia di lottare, ritorna la fiducia di essere amati, si delinea la strada da percorrere nella nebbia che si era creata.
Ed è ora di tornare a casa.
Chiara Feroci, psichiatra