Fabio Dei, antropologo

“Biodiversità” è un concetto che può funzionare da metafora per comprendere il problema della diversità culturale. Come possiamo concepire l’unità del genere umano, a fronte della molteplicità delle culture e delle tradizioni? Già Lévi-Strauss, negli anni Cinquanta, aveva enunciato un concetto simile. La civiltà umana, sosteneva, non progredisce sulla base della somma delle culture, ma in virtù degli scarti differenziali che esistono tra di esse. I momenti e i luoghi di maggior crescita sono quelli in cui le tradizioni più diverse si intrecciano (com’è stato a lungo il Mediterraneo). La differenza è dunque il principale valore da proteggere, e l’omologazione il maggior rischio da cui difendersi. Una simile filosofia è ancora oggi alla base, ad esempio, della Convenzione di Faro. Ma cosa implica questo principio? Da un lato, sembra esaltare l’incrocio, il mescolamento, il meticciato, nell’ottica che siamo soliti chiamare interculturale. Dall’altro, tuttavia, proteggere le differenze significa  anche isolarle, sottrarle alle influenze omologanti: ed è questa la strada presa dai moderni movimenti cosiddetti “identitari”, che vedono la soluzione nelle chiusure xenofobe. Come sfuggire a questa alternativa? Si misurano qui i limiti della metafora biologica. Le culture umane non sono infatti entità compatte come le specie vegetali o animali, che possano esser “protette” o salvaguardate. Non sono essenze che vengono prima della storia, ma aggregati mobili di tratti cangianti che si producono dentro la storia stessa, in costante reciproca relazione. Non si possono confinare in “oasi”, in “riserve”, nè conservare nelle teche dei musei (se non quando sono già morte). E non ha nemmeno senso configurarle come stabili aggregati destinati a produrre uno scontro di civiltà – “Noi” e “Loro”, gli “Occidentali” e gli “Altri”). E’ questa terminologia essenzializzante che ci porta fuori strada:  sia quando ci ergiamo a paladini di una nostra identità insidiata, sia quando,  con simmetrica ingenuità, esaltiamo l’Alterità contro le chiusure e la malvagità di un indistinto “Occidente”. Ci porta fuori strada anche la convinzione che il processo di globalizzazione sia di per sé omologante, cancelli cioè le differenze a favore di un’unica cultura dominante, diffusa dal Potere e dalla Tecnologia. La ricerca antropologica ha ampiamente dimostrato il contrario: cioè che la globalizzazione moltiplica le differenze, come in un caleidoscopio. E a chi obietta che non sono più le differenze autentiche, si può ricordare che l’autenticità e  l’isolamento non sono mai esistititi .- nella cultura non meno che nella natura. Abbiamo sempre vissuto, e continuiamo a vivere, in un unico mondo e dentro una stessa Storia.

Fabio Dei, antropologo

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